Nata per te: fa paura una bimba disabile?

“Nata per te” non è esattamente un film sulla disabilità, eppure in qualche modo ruota attorno a questa tematica, intrecciandola con altre questioni di tipo sociale. Un film che dà quindi diversi spunti di riflessione, anche se personalmente, come ho scritto nel gruppo FB Storiecocciute, cinema e libri, l’ho trovato un po’ lento, per quanto ben fatto e magistralmente interpretato.

Però l’oggetto di questo articolo non è la critica cinematografica del film, ma una riflessione a partire da quella che è una storia vera divenuta precedente legislativo: Luca Trapanese è stato il primo single ad adottare una bambina. Una bambina, Alba, non riconosciuta dalla madre perché nata con la sindrome di Down e non accettata da altre coppie adottive regolarmente sposate sempre perché nata con la sindrome di Down.

Sgombriamo il campo da dubbi: non c’è alcun giudizio in queste riflessioni, perché nessuno può dire cosa avrebbe fatto se o cosa avrebbe deciso al posto di finché non si trova nella medesima situazione; inoltre due persone di fronte alla stessa situazione possano lecitamente fare scelte diverse.

Però è anche inutile sorvolare sul fatto che se Alba fosse nata “sana” o “normaleuna famiglia l’avrebbe trovata subito; forse non l’avrebbe dovuta nemmeno cercare, perché sarebbe stata riconosciuta dalla madre naturale. Tutto ciò sottolineando la libertà di ogni donna di non riconoscere un bambino e anche l’atto coraggioso di ammettere di non sentirsi in grado di farsi carico di una tale responsabilità.

Nata per te: un figlio, non un figlio disabile


Il punto è proprio questo: qual è la responsabilità? Essere genitore, o essere genitori di un bambino disabile? Qualcuno dirà che sono due casistiche diverse. Solo che a me piace riflettere sul significato di ogni parola e mi chiedo: diverso da cosa? Probabilmente da quello che immaginiamo significhi crescere un figlio, ovvero dalle nostre aspettative.

Ci si aspetta che crescere un figlio disabile sia più complicato e in effetti la società conferma questa previsione: dato che le esigenze di una persona disabile ricadono in gran parte sulla famiglia, meno esigenze ci sono più diventa semplice. Questo però non significa che sia giusto, né che debba andare così per sempre.

Girare le spalle alla disabilità: a chi serve?

Rifiutare la disabilità in realtà è un illusorio tentativo di mettersi al riparo da qualcosa che fa paura. Perché la disabilità è una condizione umana con cui tutti veniamo a contatto prima o poi, più o meno direttamente. Non è una minaccia ma un dato di fatto, con il quale più si prende confidenza più ci si sentirà preparati a farci i conti.

La realtà è che tutto è relativo a questo mondo e qualsiasi cosa può diventare una opportunità. Per esempio dare alla luce un neonato con la sindrome di Down per qualcuno può essere una delusione o una tragedia, ma per qualcun altro quella nascita è sgtata l’occasione di diventare genitore contro ogni previsione.

Quello che può aiutare ad affrontare situazioni impegnative e a volte spaventose – sì, alcune condizioni fanno davvero paura – è aprirsi sulle possibilità inaspettate che può portare il futuro.

Le parole che possono aiutare

Uno dei modi per cambiare prospettiva è quella di usare parole diverse. anche quando si parla con se stessi Può sembrare cosa da poco, perché tanto i fatti sono immutabili, ma ormai da tempo si sa che la prospettiva con cui si guardano le cose fa la differenza.

Ricordo quando mi hanno dato raccontato che una vicina di casa aveva avuto una bimba con sindrome di Down, come Alba. “Che dispiacere!” mi hanno detto raccontandomelo, prima di dirmi come si chiamava, quanto pesava o a che ora era nata, tutte cose che sarebbero sembrate importanti se la bimba non avesse avuto una diagnosi. E io, che allora avevo solo 20 anni, mi sono detta che se fosse accaduto a me avrei voluto sentire parole più incoraggianti di quelle.

Ecco, eliminare anche dal proprio dialogo interiore frasi come “che tragedia”, “che peccato”, “come faremo” è di grande aiuto. Certo, le lotte con la burocrazia, le istituzioni e la freddezza ci saranno lo stesso, ma più persone useranno parole positive, più sarà facile affrontare anche i giorni più pesanti.

Caregiving: quanto conta un linguaggio inclusivo.

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