Antonio Maglio vive a Roma ed è un medico neurologo. Sono gli anni ‘50, nel dopoguerra; la vita per chi subisce danni neurologici è molto limitata.

Un giorno un collega lo chiama per un consulto; ci sono due ragazzi paralizzati che vivono in una casa di cura a Palestrina. Antonio li visita e non ha dubbi: è una lesione del midollo, non c’è spazio per la ripresa. Non riprenderanno mai più a camminare. I ragazzi passano il tempo su una barella, in un angolo di uno stanzone, a guardare il muro. A questo, Antonio non può arrendersi. “E adesso che facciamo? – chiede rivolgendosi al collega – Li lasciamo così, a letto, per sempre?”.
Antonio decide di trovare delle forme di riabilitazione, che permettano ai ragazzi di riprendere la loro vita. E’ un funzionario dell’Inail, l’istituto nazionale contro gli infortuni, quindi comincia da lì: si informa, chiede, va in direzione a illustrare la situazione. Ma ovunque la risposta è la stessa: in Italia non c’è assolutamente niente di tal genere.
Continua le sue ricerche, da solo, fuori dai confini nazionali. Viene a sapere che esiste un centro riabilitativo vicino a Londra, a Stoke Mandeville, gestito dal dottor Guttmann. E’ un medico tedesco fuggito dalla Germania nel 1939, che si occupa della riabilitazione dei reduci di guerra. Lo fa con percorsi diversi, uno dei quali è lo sport. Organizza competizioni sportive che arrivano ad avere carattere internazionale: per curare il fisico sì, ma anche per ridare loro il senso dell’obiettivo e di uno scopo da raggiungere.
Antonio capisce di aver trovato ciò che cercava. Si mette in contatto con il centro inglese, studia, impara e porta tutto in Italia.
E’ il 1957, Antonio fonda “Villa Marina”, il primo centro paraplegici di Ostia. Inventa tutto lui, da zero: tutori, ausili, tutto quello che mancava. Non li brevetta nemmeno, o avrebbero un costo proibitivo per i suoi pazienti. Come ha imparato da Guttmann, affianca al percor so medico – riabilitativo uno sportivo. Lo spirito agonistico puro, l’appartenenza alla squadra e la perseveranza verso l’obiettivo curano l’anima, oltre che il fisico.
E’ così che Antonio ha un’idea di quelle che sembrano assurde: portare gli atleti disabili alle Olimpiadi. Sono in preparazione quelle del 1960, che si terranno proprio a Roma. Ne parla con la persona da cui ha preso ispirazione: Guttmann. Lui aveva già organizzato manifestazioni di grande livello, le basi le aveva già gettate. Ora si trattava di fare un salto di qualità. I tempi sono brevi, ci sono solo tre anni per creare una squadra di atleti di spessore, completi, di livello internazionale, capaci di affrontarsi come dei professionisti.
Sembra impossibile. Ma Antonio lo fa lo stesso: crea una squadra che si presenta con la maglia dell’Inail. Nel 1960, per la prima volta al mondo, vanno in scena la Paraolimpiadi, nello stesso luogo e nelle stesse strutture delle Olimpiadi: partecipano 400 atleti provenienti da 23 Paesi. Il resto è storia.
Antonio è il padre putativo della manifestazione. Gli atleti sono i suoi ragazzi, per lui come dei figli. E’ sempre presente, li segue in tutto, ma un motto ben preciso: “Aiutali solo se ti chiedono aiuto”.
Porta lo stesso metodo anche nelle sue esperienze successive. Dirige la Fondazione Santa Lucia e crea una squadra di basket: è l’allenatore, il preparatore atletico, il cuore della squadra. Diverrà la squadra con più scudetti d’Italia.
Antonio muore per un malore improvviso nel 1988 a 76 anni.