Disabilità e narrazione: chi decide cos’è la “dignità”?

La narrazione della disabilità è uno dei temi che affronto più spesso, perché racconta dello sguardo che la società ha su di essa. E ci aiuta a capire come quello sguardo può — e deve — cambiare.

Di recente ho letto Il club delle cattive figlie. Non mi ha particolarmente coinvolto, ma non è questo il punto. Il punto è un passaggio finale del libro, determinante per la riflessione che voglio proporre.

Da qui in poi, SPOILER ALERT.

L’impatto di una diagnosi

La storia ruota attorno al ritrovamento di un cadavere. Alla fine si scopre — senza troppa sorpresa, almeno per me — che si è trattato di un suicidio.
Il motivo? Il personaggio aveva ricevuto una diagnosi di quelle toste: aveva la SLA, una malattia neuromuscolare degenerativa. Desiderava quindi ricorrere alla legge sul suicidio assistito spagnola, legge però bloccata – così racconta il romanzo – durante l’iter legislativo.

Chiariamoci: non è mia intenzione giudicare il principio del suicidio assistito, esprimermi a favore o contro, né, tantomeno, sottovalutare quanto possa essere devastante ricevere una diagnosi che stravolge la vita che si era conosciuta fino a quel momento.

Io qui voglio parlare della narrazione.

Quando l’autrice svela il mistero e racconta la decisione del protagonista di porre fine alla propria vita per non dover affrontare la malattia e la conseguente grave disabilità, non lascia aperta alcuna altra possibilità. Dà per scontato — quasi come una universalmente condivisa morale — che qualsiasi lettore non solo comprenderà la scelta, ma la sosterrà pienamente.

In sintesi: “sta per diventare disabile, quindi è ovvio che voglia togliersi la vita“.
Questo è il sottotesto che traspare tra le righe.

Attenzione: non è una questione di opinioni, perché quelle sono legittime. L’autrice è evidentemente a favore di una legge sul suicidio assistito e nessuno discute questa posizione.
Il problema è un altro: la solida certezza con cui il libro afferma — implicitamente — che sia più dignitoso morire che vivere da persona disabile.

E questa è una narrazione a dir poco limitante.

Offrire una diversa prospettiva

A riprova, nessuno dei personaggi coinvolti — circa una decina — mostra un minimo di dubbio. Né chi aiuta il protagonista nel suo intento, né chi scopre dopo cosa è accaduto. Nessuno si ferma di fronte alla gravità (termine che uso senza giudizio morale) di quel gesto, né sulla drammaticità della decisione di porre fine alla vita.

È morto un essere umano, per decisione razionale, con la complicità – anche in significato legale – di altre persone… possibile che nessuno si domandi se fosse l’unica strada percorribile? Se fosse davvero “giusto”?
No, non sembra esserci alcuno spazio di valutazione, nessuna alternativa. Anzi: il piano viene attuato quando il protagonista è ancora in buona salute, prima che la disabilità si manifesti. Tutti danno per scontato che quella sia l’unica opzione dignitosa.
E l’autrice, evidentemente, presume che anche chi legge la pensi allo stesso modo.

Narrazione della disabilità: meglio morire?

Lo ripeto per chiarezza: non intendo sminuire l’impatto della SLA o di altre malattie neuromuscolari e genetiche che comportano disabilità fisiche — talvolta anche intellettive — gravi e progressive. Stravolgono la vita di una persona e di chi le sta accanto.
Ma qui il punto è un altro: nel libro non si prende neppure in considerazione l’idea che esistano alternative.
Non c’è un tentativo di esplorare — anche solo di immaginare — che una vita con disabilità possa avere valore, significato e soprattutto la stessa dignità di qualsiasi altra esistenza.

Eppure di esempi di persone che convivono con questa malattia ce ne sono. L’esempio più celebre è Stephen Hawking, che ha convissuto con una forma di Sla per oltre 50 anni e, contemporaneamente, è diventato lo scienziato più famoso dei nostri tempi.

Non tutti hanno lo stesso destino, è vero. Molti vivono una quotidianità della malattia o della disabilità più semplice, più nascosta e anche più difficile o frustrante. Ma non giustifica che la vita delle persone con disabilità venga raccontata se non come tragedia o rinuncia.

C’è altro, e vale la pena di andarlo a vedere.