LA SCUOLA ITALIANA è LA PIU’ INCLUSIVA D’EUROPA. Non è uno slogan, neppure ina provocazione, ma un dato reale calcolato sugli standard fissati dall’Unesco rispetto all’inclusione scolastica. Vale davvero la pena di sottolineare questo risultato e anche di esserne orgoglioso: le cose non sarenno perfette, ma sicuramente abbiamo ottime fondamenta su cui lavorare.
Eppure lo so, c’è già chi sta pensando “figuriamoci negli altri Paesi come sono messi male, allora!”. Infatti, è esattamente così, nel resto d’Europa sonoo messi abbastanza male. Nel senso che la scuola italiana nella normativa scolastica è decisamente avanti, grazie alla abolizione delle classi speciali.
Come si calcola il livello di inclusione scolastica
Ma come si arriva a questo dato? Secondo le indicazioni dell’Unesco, si può definire avvenuto il processo di inclusione di uno studente disabile quando è iscritto alle scuole ordinarie e passa almeno l’80 per cento del tempo insieme ai coetanei nelle classi comuni. Secondo questo criterio, nelle scuole italiane nel il 97% degli alunni con disabilità possono essere considerati “inclusi”.
“Beh è normale” starete pensando. Solo che è normale per noi, qui in Italia, dove neppure ci viene in mente di creare classi o addirittura scuole separate. Dove, anzi, ci si interroga – o talvolta dovremmo dire si discute – se e quanto è lecito che uno studente stia fuori dall’aula, con il docente o un piccolo gruppo di compagni, in base alle sue esigenze.
Negli altri Paesi d’Europa NON accade così. Anche i più virtuosi sono lontani del nostro risultato; dietro il primato italiano ci sono Portogallo con l’87%, Grecia con l’85% e Spagna con l’83%.
Poi si scende. In Germania, la percentuale degli studenti “inclusi” è solo del 52%. In Francia la situazione è forse ancora peggiore: sebbene l’87% degli studenti frequenti scuole ordinarie, solo il 43% passa l’80% del tempo con i compagni. Mi chiedo dove siano il resto delle ore.
Stessa domanda da porre ai docenti danesi, visto che nelle scuole della Danimarca solo il 9% degli studenti (meno di 1 ogni 10) condivide il tempo scuola con il proprio gruppo classe. Ma anche in Austria, Belgio, Inghilterra, Polonia, Svezia è abituale vedere la presenza delle cosiddette “scuole speciali”.
Gran parte dell’Europa del Nord, quella cui guardiamo con grande ammirazione – che talvolta sfocia in una eccesiva ammirazione a discapito del Belpaese – non ha una impostazione di base diretta verso una reale inclusione scolastica.
Quindi sì, la scuola nostrana merita questo riconoscimento, al di là delle difficoltà quotidiane. Perché se non ci fossero queste basi, sarebbe ancora più difficile lottare per una inclusione reale.
Il processo storico di trasformazione della scuola
Il ringraziamento va anche a quanti hanno gettato le basi dell’inclusione scolastica, a livello normativo e prima ancora concettuale.
Una di queste figura è Franca Falcucci, prima firmataria dell’omonimo documento datato 1975. Franca Falcucci, che passò dalle cattedre delle scuole superiori a senatrice della Repubblica, fu incaricata di presiedere una commissione che doveva svolgere uno studio sui “problemi degli alunni handicappati” (sì l’espressione non è il massimo, ma era quella che si usava 50 anni fa).
Dal lavoro nacque quello che ancora oggi è considerato il più avanzato elaborato sul rapporto scuola e disabilità, perché promuoveva un nuovo modo di concepire e attuare l’inclusione e il concetto di studio.
“Proprio perché deve rapportare l’azione educativa alle potenzialità di ogni allievo – si legge – (la scuola) appare la struttura più appropriata per far superare le condizioni di emarginazione in cui altrimenti sarebbero condannati i bambini handicappati”.
E’ quindi comprensibile che di tale documento sia affrontato anche in Cocciuti a Scuola, il primo video corso che racconta l’inclusione scolastica ai genitori.
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